Questa foto ritrae il senso che io do alla parola Educare. Per me educare è come dare un tenero abbraccio e lasciare che siano i bambini stessi a cercarlo. Abbracciare ogni parte di noi, farci prossimi agli altri e capirne le necessità, i desideri. Un abbraccio può aprire finestre cerebrali, sia per chi dà sia per chi riceve, oltre che far pulsare il nostro cuore facendoci stare bene. In questo scatto, il bambino che tengo in braccio è in lacrime per un grande momento di sconforto che è solito vivere durante le giornate a scuola.
Quando prendi in braccio un bambino che piange, vorresti assorbire tutto quel dolore che prova, desiderando volergliene togliere un po’. Questo bambino è ipersensibile agli stimoli esterni e quando sta male, l’unica cosa di cui ha bisogno è sentire di essere protetto. Il suo pianto funge sempre da “campanella d’allarme”per i compagni, che si rendono conto di averlo probabilmente destabilizzato creando troppo rumore in aula. In questa occasione, due di loro sono corsi in suo aiuto lasciando in sospeso la merenda. La loro presenza ha provocato due reazioni a catena: la prima, interrompere il suo pianto e la seconda, riempirmi di immensa gioia (per questo sorrido, e quasi arrivo a commuovermi). Quell’abbraccio è riuscito a cambiare lo stato d’animo del bambino, disinnescando il suo pianto immediatamente.
In quel momento, ho rivissuto situazioni di frustrazione o tristezza da parte di bambini che nell’istante del loro dolore (perché il dolore è sempre soggettivo e non c’è mai una verità oggettiva) avrebbero avuto bisogno di non essere etichettati ma semplicemente consolati. Quanti, forse, avrebbero avuto bisogno di uno sguardo diverso, attento… senza pregiudizi al loro malessere.
Quando sto con loro, quando li osservo e li vivo, il mio flusso di coscienza inevitabilmente si attiva. E quando succede, altro non posso fare che mettermi in discussione e dargli ascolto.
Parto da questo episodio per dire una cosa, la più importante in assoluto per me. Bisogna dare priorità al vissuto emozionale dei bambini. E per priorità intendo che non si può continuare a credere che la vita di una persona sia fatta a compartimenti stagni e che le parti non dialoghino tra loro. Soprattutto, quando si parla di gestione delle emozioni e rendimento o riuscita nell’ambito scolastico.
E questo perché? Perché è stato scoperto che assieme a tutto quello che noi immagazziniamo come contenuti, conoscenze, sapere, nella nostra memoria sarà inciso anche il ricordo che abbiamo vissuto a livello emozionale, rispetto a quel dato o informazione che ci è stata fornita. Vale a dire, il nostro processo di apprendimento sempre sarà permeato dalle emozioni che viviamo durante il preciso momento in cui impariamo (o non impariamo, dipende!).
Questo per ribadire che interessarsi su come stiano i bambini per davvero, deve essere il motore e la base su cui improntare il loro percorso scolastico…e non solo.
«Se un bambino impara con gioia, la lezione si inciderà nella mente insieme alla gioia. Nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare!” scrive Daniela Lucangeli nel suo libro “Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere”. Sempre lei, parla di “interruttori emozionali”, come l’abbraccio. A livello psicofisico, hanno delle conseguenze potenti sulla nostra salute e benessere. Amo questo libro e ogni tanto torno a rileggerlo. È un libro scientifico, e ti cattura per la naturalezza e sensibilità con cui è stato scritto.
Ed è qui che voglio arrivare: in realtà come Magea, l’accompagnamento emozionale dei bambini è il pilastro portante del modello relazionale che si porta avanti. Quando c’è un vissuto emozionale che coinvolge un bambino con un pari o l’intero gruppo, la didattica e tutto ciò che è programmazione scolastica si ferma. Non ci sono limiti né di spazio né di tempo quando un bambino ha bisogno di esprimere la propria emozione. E non c’è giudizio o parole che possano descrivere o anticipare quel momento da parte di nessuno. È proprio del bambino che lo vive, e insieme all’adulto o ai compagni ne prende coscienza.
Tutto questo per me significa educare. Comprende molto altro, sì, ma rispetto a questo tema credo ci sia bisogno di parlare di più.
E i bambini stessi ne sono la prova vivente, quando riescono a mettere davanti l’interesse per l’altro, con sensibilità ed empatia che gli sono proprie, per esempio abbracciando e chiedendo con gentilezza a un compagno che piange “Stai bene? Posso fare qualcosa per te?”.
